Comunicazione e informazione Trasporto privato (auto e moto)

Cinque spunti per una comunicazione efficace della città 30 km/h

Recentemente si è tenuto un affollato convegno promosso da Legambiente Lombardia sul tema Città 30, istruzioni per l’uso.

Nell’ambito del convegno è intervenuta anche Irene Ivoi (Nudge Designer Sottosopra Comunicazione) che tempo addietro abbiamo intervistato approfondendo un approccio diverso per favorire comportamenti sostenibili.

Considerato che su queste pagine abbiamo già pubblicato vari articoli sul tema dello sviluppo delle città 30 (Città 30 km/h: Bruxelles dall’1.1.2021, Le città 30 km/h: Saint-Brieuc in Francia, Al via oggi in tutta Italia la campagna #città30subito) ci sembra giusto riprendere i consigli di Irene Ivoi su come sia meglio comunicare questa proposta di cambiamento per le nostre città. che ha incontra tante diffidenze, resistenze, contrarietà.

Ecco una sintesi dei suoi suggerimenti, che sono rivolti in particolare a Milano ma che possono essere estesi anche altre altre realtà.

Cosa fa paura del cambiamento

Il cervello non ha paura di cambiare se sa verso dove andrà, la paura di cambiare entra in gioco quando si naviga nell’incertezza del dove si va e quindi del cosa succederà.

Un cambiamento (Milano a 30 km/h) attiva il bias dell’avversione alla perdita: ogni volta che un nuovo comportamento genera la perdita di qualcosa che possediamo o usiamo, il cervello ha paura, resiste, è reticente. Nel caso specifico esiste una percezione di perdita di autonomia individuale che si aggiunge alla percezione di perdita di tempo. Ma poiché non si conoscono gli effetti di una Milano a 30 km/h, le conseguenze incerte generano paura.

Esempio: arrivi alla fermata del bus e se non sai quando passerà, hai paura di aspettarlo. Se sai che tra 4 o 18 minuti passerà, non hai più paura e sei nelle condizioni di decidere se attenderlo o proseguire in altro modo.

Serve dare certezza

La paura non va banalizzata, serve tenerne di conto e possibilmente trasformare le incertezze in certezza. Questo a nostro avviso si può fare ad esempio quantificando la perdita.

E quindi bisogna avere il coraggio di dire che per andare in palestra servono 3 minuti in più, oppure per arrivare al ristorante 4 minuti in più… che poi è il tempo di un caffè.

Pensate a quelli che hanno dovuto convincere l’umanità che serviva una volta l’anno perdere un’ora di sonno quando in primavera si passa all’ora legale.

E invece come diceva François de La Rochefoucauld, scrittore e moralista del 17 sec, “confessiamo i nostri piccoli difetti solo per convincere gli altri che non ne abbiamo di grandi”.

Una cosa poco efficace

Sul piano prettamente informativo citare i dati di morti e feriti per incidenti dati da velocità elevata è dovuto, sul piano della comunicazione la musica cambia. Perché purtroppo questi tragici numeri non destano emozioni significative, cioè capaci di attivare veri comportamenti. E ancor più grave, toccano quasi solo quelli che in famiglia o nel proprio giro vicino si sono confrontati con queste tragedie.

Basti osservare, infatti, come associazioni quali Airc (Associazione Italiana per la Ricerca su Cancro) raccolgano ben più fondi rispetto a quelle che si occupano di malattie rare. La ragione è la medesima: sono molti di più coloro che che hanno vissuto da vicino o in prima persona una storia di tumore, ed essendo coinvolte risultano più sensibili all’argomento. Se vogliamo citare i numeri di queste tragiche morti dobbiamo farlo restituendo un’identità vera alle persone decedute o incidentate. E quindi parlare di persone reali, delle loro storie, dei loro sogni infranti, come è avvenuto il 4 febbraio al flashmob “Basta morti in strada” in Piazzale Loreto.

Cercare un frame più emozionale

È sempre più necessario individuare un frame capace di toccare proprio la componente emotiva delle nostre identità e questo può avvenire puntando sull’identificazione: Milano è di tutti, Milano siamo tutti.

Associare l’identità di un ciclista o di un pedone a persone a noi care può toccare meglio la componente emotiva di chi guida e rischia di mettere in pericolo gli altri.

Un esempio di identificazione emotiva potrebbe essere quella di dotare in un flashmob le persone in bicicletta di pettorine o targhe molto dirette: io sono tuo figlio, io sono tua sorella, io sono il tuo miglior amico. Abbi il coraggio di proteggermi, prenditi il diritto di proteggermi.

Milano non è solo di chi guida un’automobile, Milano è davvero di tutti.

I vantaggi di chi lo ha già fatto

Mostrare i vantaggi e anche cosa è successo lì dove lo hanno fatto è importante e in logica nudge si ispira all’ingrediente della norma sociale che nel confronto con gli altri stimola comportamenti imitativi o emulativi (in questo caso in meglio).

I dati dicono che laddove questa rivoluzione è avvenuta i benefici superano gli svantaggi.

Peraltro visti i casi di successo anche all’estero, questa scelta significa anche decidere di essere Europa.

E noi siamo certe che Milano questa sfida sia pronta a giocarsela perché Milano è Europa.

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