Cambiamento climatico

Chi deve pagare i danni causati dal cambiamento climatico?

Secondo un nuovo studio, le 21 principali aziende di combustibili fossili del mondo sono ritenute responsabili di almeno 209 miliardi di dollari di danni annuali dovuti al cambiamento climatico.

In un precedente articolo abbiamo visto che la crisi climatica sta producendo enormi costi economici, sociali e culturali. In particolare, poi, gli eventi estremi stanno diventando sempre più frequenti; Oltre 400 eventi naturali “estremi” sono avvenuti nel 2021 nel Mondo. Eurostat indica in 145 miliardi di euro persi in un decennio in Europa a causa dei cambiamenti climatici.

La questione di “chi dovrebbe pagare per i danni climatici” è sempre più discussa nella letteratura scientifica, tra i movimenti per il clima e nel dibattito politico, in particolare per quanto riguarda il meccanismo del “Loss and Damage”. E ora uno studio scientifico, prodotto anche da un ricercatore italiano, prova a mettere il prezzo ai danni causati dai più grandi produttori di combustibili fossili al mondo. 

Lo studio quantifica la responsabilità di ogni azienda per i danni attesi da fenomeni meteorologici estremi e altri cambiamenti climatici causati dalle sue emissioni operative e di prodotto dal 1988 al 2022, ovvero i danni futuri dovuti alle emissioni storiche.

Questo lavoro di Marco Grasso (Università di Milano-Bicocca) e Richard Heede (Climate Accountability Institute), Time to pay the piper, pubblicato sulla rivista scientifica One Earth, propone una responsabilità moralmente fondata dei produttori di petrolio, gas e carbone nel pagare le riparazioni.

Basandosi sul Carbon Majors Database, che registra i dati sulle emissioni dei maggiori inquinatori di carbonio, lo studio quantifica i pagamenti annuali dovuti dalle 21 principali aziende di combustibili fossili dal 2025 al 2050 per compensare i danni attesi da fenomeni meteorologici estremi e altri cambiamenti climatici causati dalle loro emissioni operative e di prodotto dal 1988 al 2022.

Secondo questa ricerca, i 21 principali produttori di combustibili fossili a livello globale sono collettivamente responsabili di 5,4 trilioni di dollari di costi economici attesi dai cambiamenti climatici nel periodo 2025-2050, ovvero 209 miliardi di dollari all’anno in media.

Dopo aver tenuto conto delle fonti di riscaldamento non legate ai combustibili fossili, i danni economici futuri dovuti alle emissioni dei combustibili fossili sono stimati a 69,6 trilioni di dollari nel periodo 2025-2050. Lo studio attribuisce prudentemente un terzo di questi costi climatici all’industria globale dei combustibili fossili e un terzo ai governi e un terzo ai consumatori.

L’industria globale dei combustibili fossili risulta quindi responsabile di 23,2 trilioni di dollari di perdita del PIL prevista per gli impatti dei cambiamenti climatici nel periodo 2025-2050, ovvero 893 miliardi di dollari all’anno.

Per calcolare le responsabilità delle singole aziende, gli autori hanno fatto riferimento alle loro emissioni dal 1988, anno in cui è stato istituito l’IPCC, sostenendo che “dal 1988, le affermazioni di incertezza scientifica sulle conseguenze delle emissioni di carbonio sono insostenibili”. Circa la metà del riscaldamento registrato finora è avvenuto a partire da quella data e gli impatti del cambiamento climatico nei prossimi decenni saranno in gran parte dovuti alle emissioni prodotte a partire dalla fine degli anni Ottanta.

In base alla loro quota di emissioni nel periodo 1988-2022, le 21 maggiori aziende del settore petrolifero, del gas e del carbone sono quindi responsabili di 5.444 miliardi di dollari di perdita di PIL prevista per il periodo 2025-2050, pari a 209 miliardi di dollari all’anno.

Alla Saudi Aramco, che ha le maggiori emissioni nel periodo 1988-2022 da fonti dirette e legate ai prodotti, sono state attribuite responsabilità annuali per 43 miliardi di dollari, un valore sostanziale ma basso rispetto alle entrate del 2022, pari a 604 miliardi di dollari, e ai profitti, pari a 161 miliardi di dollari.

Alla Exxon, la principale società di proprietà degli investitori, vengono attribuiti pagamenti annuali di riparazione per 18 miliardi di dollari – rispetto a ricavi di 399 miliardi di dollari e profitti di 56 miliardi di dollari nel 2022.

Come incentivo all’azione tempestiva, gli autori propongono che le aziende possano avere diritto a risarcimenti ridotti se smettono rapidamente di produrre combustibili inquinanti o raggiungono i loro obiettivi netti zero verificati.

“Il quadro proposto per la quantificazione e l’attribuzione dei risarcimenti ai principali produttori di combustibili fossili è fondato sulla teoria morale e fornisce un punto di partenza per la discussione sul dovere finanziario che l’industria dei combustibili fossili ha nei confronti delle vittime del clima”, ha dichiarato l’autore principale Marco Grasso, professore all’Università di Milano-Bicocca, che spera che questo lavoro “informi gli sforzi futuri per indirizzare i pagamenti da parte delle aziende di combustibili fossili alle parti danneggiate”.

“Questa è solo la punta dell’iceberg dei danni climatici a lungo termine, dei costi di mitigazione e adattamento”, ha dichiarato il coautore Richard Heede, cofondatore e direttore del Climate Accountability Institute, “nella misura in cui la nostra misura della perdita di PIL al 2050, pur essendo sostanziale, ignora il valore dei servizi ecosistemici persi, delle estinzioni, della perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza, e di altre componenti del benessere che non vengono catturate dal PIL”.

#LaGiustaCausa

Ricordiamo che recentemente Greenpeace Italia insieme a ReCommon e dodici tra cittadine e cittadini italiani – molti provenienti da aree già colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici – abbiamo deciso di portare ENI in tribunale.

Le due associazioni chiedono al Tribunale di Roma:

  • l’accertamento del danno e della violazione dei diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata. 
  • che ENI sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi Centigradi secondo il dettato dell’Accordo di Parigi sul clima.
  • la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze, azionista influente di ENI, ad adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi. 

#LaGiustaCausa – questo il nome della campagna che promuove l’iniziativa legale contro ENI, è la prima del suo genere contro una società di diritto privato in Italia. Si inserisce nel quadro delle cosiddette climate litigation, azioni di contenzioso climatico che, secondo il database del Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University, ad oggi ha raggiunto a livello mondiale quota 2.276. 

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